La Valle delle Meraviglie e il Bacino dei Laghi Lunghi del Monte Bego
Serbava ancora i ricordi di silenzi assolati,
di lisce rocce montonate,
incise da migliaia di simboli e di figure:
uomini, aratri e buoi, capanne.
Visti e incisi sulle rocce dall’alto,
forse da un preistorico popolo montano,
cacciatore e nascosto,
che amava copiare le scene dalla vita di ogni giorno
dell’altro popolo pastore agricoltore e villano,
che ferveva operoso là dabbàsso.
Rivedeva, con gli occhi della mente di bambino,
gli eleganti voli di poiane dal piumaggio bruno e screziato,
di falchi grigi ardesia col ventre bianco a strisce nere,
di gracchi neri a riflessi verdi e becco giallo
e corallini dal becco più lungo striati di riflessi violetti,
di spioncèlli slanciati in livrea grigio oliva dalla pancia biancastra,
infine le aquile reali, rare, fulvicrinite, perennemente aggressive.
A terra, martore e volpi rosse
e, simili nell’aspetto, donnole e ermellini.
Pensava ai larici, agli abeti rossi, ai pini mughi.
Ma, soprattùtto, alla saxifraga florulenta
“gloria delle Alpi Marittime”.
Il cielo a Casterino pareva più alto, più azzurro.
Tutto era più sereno e più semplice.
I prati a valle del Bego, il “suo” mitico Monte,
erano dènsi di misteriosi ricordi.
Amava il Sole che sorgeva e rinnovava
puntualmente il caldo contatto quotidiano
col “suo” gregge e la natura.
Si diffondeva d’intorno
un che di maestoso e infinito. L’astro solare,
rinato all’aurora, scivolava a valle,
colorando di luce rosa le rocce incise del Bego,
dietro il quale, per non esser visto,
si nascondeva.
All’improvviso una voce imperiosa,
interna, incalzante,
gli ordina di scalare il Monte Bego.
Una cantilena strana
reiterànte infinita. Nel contempo
un ordine misterioso estenuante perentòrio.
In un ultimo attimo di cosciènza ebbe a paragonarlo
al mitico canto delle Sirène,
anche se non lo aveva udito mai . . .
Illuminato dalla Luna Piena
e dalle stelle, cominciò la scalata di notte.
L’ascésa, inizialmente facile,
diventa sempre più difficile,
ma son d’acciaio le mani del soggiogato,
sull’appìglio. Una présa, un metro, un appoggio,
un sostegno, uno sperone, una sporgenza,
un altro passo, una punta . . . immàne l’ultimo sforzo:
evviva! è riuscito! è sulla cima del Bego e . . . la vede.
La vede in tutto il suo splendore.
E’ molto di più di come l’aveva immaginata:
un’incantevole dea dormiente.
Immediato un abbraccio, durante il risveglio sensuale:
milioni di amplessi si condensano nell’Essere,
l’Aurora felice lo bacia.
Ma il Sole s’inalza, lo accieca, lo preme,
lo schiaccia, lo brucia, l’incalza geloso.
Lo spinge e l’uccide dall’alto del Monte.
Precipita e piomba nel fondo per sempre.
Lento il suo corpo si fonde nel verde,
accanto s’essicca una saxifraga grassa
dal lento mortale fiorire,
il canto del cigno si sente lontano.
Aurora riscalda ma non restituisce la vita,
laddove la morte ha ghermito
ora ecco sgorgare una fonte di limpida e diafana
acqua. Esultano nuovi germogli, tripudio
di fiori, di arbusti, di piante, di foglie.
Oggi quel sito ha anche il nome:
Fontanalba o “Fountanalba”, che in tendasco
vuol dire “Sorgente dell’Aurora”.
Paolo Santangelo